Angelo Stroppa

 

Paolo Gorini fra leggenda e mistero

 

Paolo Gorini entrò nella memoria popolare di Lodi e del Lodigiano come l’uomo che possedeva segreti portentosi ed un po’ diabolici.

Si favoleggiava di morti pietrificati che venivano ad aprire la porta del tenebroso locale nella sconsacrata chiesa di San Nicolò, dove Paolo compiva i suoi esperimenti; e di mummie che lo servivano in casa nella semideserta contrada Grande, dove lo scienziato abitava, a quattro passi dall’ospedale Maggiore e dall’Obitorio.

 

"Dal cortile [dell’ospedale Maggiore di Lodi] il vecchio [Gorini] accompagnò il [visitatore] verso un pertugio -- si racconta in una popolare descrizione forse fantasiosa (ma quasi certamente basata sopra un fondamento di verità) -- e di qui cominciò a scendere giù per una scala buia facendosi lume con una candela, fino a calare un una specie di cripta sorretta da enormi travature nelle quali si udiva lo scricchiolio dei topi, e poi scese ancor più a fondo per una scaletta segreta di pietra, penetrando in un angiporto che prendeva luce dalla volta, come attraverso un pozzo. Qui [si] vide aprirsi un uscio al tocco di una cordicella e un essere d’aspetto umano, silenzioso, avvolto in un lenzuolo, con la faccia color dattero, con gli occhi fissi girò su se stesso attorno al cardine della porta, restando assolutamente rigido in un silenzio perfetto.

Uno strano odore di muffa, naftalina, canfora, petrolio e acido fenico invadeva quell’antro.

[L’ospite di Gorini] sudat[o] di terrore, si accorse che nella penombra, piano piano, apparivano altre figure simili alla prima; quali addossate alla parete; quali distese sopra tavole di granito. E poi notò che una terza le stava alle spalle, ritta in piedi a braccia aperte sopra un trespolo; e un’altra ancora come inginocchiata sul pavimento della grotta. Erano gambe, costole, mascelle, braccia tenute insieme con aste di ferro e magari su tamburelli girevoli.

Il vecchio in mezzo a quella silenziosa e spettrale popolazione si sentiva in casa propria (…).

Ma in quell’assemblea di defunti mummificati si notava pure qualche traccia di utensile domestico: ad esempio un pentolino di rame (…) e un lettuccio dove lo strano chirurgo imbalsamatore molto spesso si adagiava per trascorrervi la notte e ricominciare avanti l’alba il proprio lavoro.

Topi e gatti gli ballavano intorno".

 

Paolo veniva considerato una specie di mago che si celava in un luogo appartato, il suo laboratorio, a praticare stregonerie ed a far bollire misteriose pignatte.

La sua figura allampanata, con uno sdrucito palamidone, dalle tasche rigonfie di libri, mele e castagnacci; la gran barba bianca, il suo incedere solitario con una continua punta di mestizia in volto, contribuivano ad accrescergli intorno un sentimento che aveva della paura, del sospetto e della reverenza insieme. Per modo che "a lui, passante per la via, si lasciava la strada quanto era larga: ma appena voltate le spalle si faceva da alcuni il crocione".

Pare che spesso Gorini convi[ve]sse coi soli morti per dei mesi di seguito.

 

"Lavorava di notte e dormiva di giorno. E sull’alba ritornandosene Egli a casa dal laboratorio, allorché incontrava qualche persona viva si tirava -- diceva lui -- contro il muro con quella stessa paura che avrebbe avuta quel vivo alla vista di un morto".

 

Paolo Gorini, comunque, non spaventava nessuno: anzi, quel suo trafficare quotidiano con i cadaveri, aveva reso più domestica a Lodi, forse più familiare, la realtà dell’oltretomba.

Contribuiva a questo anche la bonarietà burbera del professore che viveva solo, ma non solitario: che amava i morti, certo, ma anche i vivi.

 

"Era guardato -- si legge in una descrizione del tempo -- con rispetto dagli intellettuali, con diffidenza dai borghesi, con ammirazione dai pazzi, con gratitudine dai poveracci ai quali lungo la strada [che percorreva quasi ogni giorno dalla sua dimora al laboratorio] faceva l’elemosina non di denaro perché disprezzava il denaro ma di mele e di biscotti che cavava dalla tasca del lungo pastrano che gli cadeva dalle spalle come una coperta da cavallo cucita male.

Viveva senza cappello d’estate e inverno, sole o neve.

I colombi del Duomo [di Lodi] gli beccavano la testa e gli si posavano sulle braccia".

 

Passeggiava per la città quasi sempre solo anche se "si vedeva di rado; non v’era lodigiano che non lo conoscesse. In quei tempi – scriveva Pietro Monferini nel “Crepuscolo” di Genova del febbraio 1881 – non certo per spregio, ma proprio per…, vorrei quasi dire orgoglio – le madri sorridenti di sdegno dicevano ai loro bimbi per farli tacere “Guarda che chiamo il professor Gorini!” e questa gentile minaccia bastava a far rientrare i musini lunghi dei bricconcelli.

Lodi tutta amava Gorini – e quel che è meglio stimava – il suo genio, ma ripeto, non troppo espansiva, amava e stimava Gorini con una specie di severa venerazione priva affatto delle stolte forme del culto esterno.

Gorini amava molto i suoi concittadini, moltissimo i suoi allievi ed avea sempre un sorriso benevolo per ogni bimbo che lo avvicinava.

Non cito nomi – perché affatto inutile e perché affatto inutile e perché dovrei empire una colonna [della rivista] – ma accerto che Gorini, solo che lo avesse manifestato o desiderato avrebbe trovato tutto quanto voleva. Ma Lui serio, nobilmente altero, incorrotto ed incorruttibile non addimostrava mai d’aver bisogno, e non solo cortesemente respingeva le offerte, ma nessuno sapeva trovar mezzo di potergli far accettare la benché minima cosa. Genio forte che strenuamente strenuamente lottava colla miseria eludeva tutte le arte che la benevolenza dei sui concittadini inventava per fargli pervenire qualche soccorso sotto qualunque forma, sotto qualunque pretesa. Gorini non accettò che per le preghiere altrui e proprio solo quando non poté farne a meno per far procedere di pari passo i suoi studi arditi mercè talune indispensabili esperienze".

 

Anche per questo, e sia pure col dovuto rispetto e distacco, la gente lodigiana voleva bene al “suo Mago”, quasi si identificava in lui.

 

"Quando pallido e barbuto andava in giro per varie città o capitali d’Europa con i suoi pentoloni a far pubbliche dimostrazioni di poltiglie -- ebbe modo di raccontare il lodigiano Vittorio Beonio-Brocchieri che vantava una qualche parentela con Paolo Gorini --, di fornaci e di ebollizioni per dimostrare alle folle come si formano le rupi, o come funzionano i crateri eruttivi, la gente guardava, capiva poco e rideva molto. Anche perché non era quello il mezzo migliore per propagandare una scienza nuova; e tutto quel fumo pestilenziale che esalava dai padelloni arroventati dava negli occhi agli universitari, disturbandoli nella loro ortodossia curiale. Tanto che gli lesinarono i soldi e gli biffarono la progettata cattedra di insegnante all’Università. Lui ci si arrabbiava e quando tornava a casa (…) lo trovava[no] sempre più magro, mentre vedendolo girare fra ospedali e cimiteri la gente diceva. “Ecco il soprabito che porta in giro lo scheletro e il teschio di Gorini”.

Ma dentro quel fantasma agivano i potenziali di un sistema nervoso -- concludeva nelle proprie memorie sempre Beonio-Brocchieri con frasi irriverenti ma certo confinanti con una realtà leggendaria -- e di una volontà ad altissima tensione, e dagli occhi spettrali si sprigionava una luce di abbacinante bontà.

Fascino di tutti quelli che si incaponiscono a beneficare il prossimo".